Impossibile

Omega Group 1

Regno Unito, giorni nostri. Da una ventina d’anni circa, in tutto il mondo, hanno iniziato a nascere bambini dai poteri particolari. Un’opinione pubblica sempre più ostile li definisce “quelli lì” o, sarcasticamente, gli “specials”. Amber è una di loro.
Sempre in UK, c’è una sezione dei servizi segreti conosciuta come Omega Group. O meglio, no, non è conosciuta, ovviamente è segreta. È composta solo da individui dotati di capacità extrasensoriali fuori scala, esper in grado di leggere nel pensiero, di prevedere il futuro, di spostare gli oggetti con la mente o di fare cose anche più strane. Molto più strane, nel caso di Amber.
Il suo esp principale è un esp erogeno che le ha dato una scomoda fama da vedova nera, ma che la rende anche perfetta per un certo tipo di operazioni. Per questo, dopo la scuola di formazione, Amber viene assegnata al Brixton Branch, una divisione dell’Omega Group sotto l’illuminato comando di Edward Malachi Winterbourne. Un capo gentile, collaborativo, attento a valorizzare le esperienze di ognuno… e un uomo impossibile. Totalmente impossibile.

Dunque, il direttore. O, come sarei presto arrivata a considerarlo, l’uomo più impossibile del mondo.
Di lui sapevo molto poco, giusto il nome. D’altronde l’Omega Group faceva pur sempre parte dell’MI5, non di una bocciofila. Un sacco di cose erano classificate. Edward Malachi Winterbourne era il direttore da diversi anni, non sapevo quanti, ed era uno degli oldies.
Eh già. I normali pensavano che “Quelli lì” fossero una novità dovuta all’inquinamento, al surriscaldamento climatico, alle onde magnetiche, a una mutazione genetica o agli alieni, ma gli specials erano sempre esistiti. Solo, erano pochi. Così pochi e così rari che fino a una ventina di anni prima erano riusciti a restare segreti.
Alla scuola di formazione ne avevo conosciuto qualcuno e, credetemi, di solito ti davano i brividi. Avevano vissuto un’altra epoca, avevano un altro modo di fare le cose. E, spesso, avevano delle abilità davvero spiccate, oltre che allenate da anni di esercizio.
Dietro la scrivania, un uomo sui trentacinque in un completo sartoriale color antracite, elegante e un po’ antiquato. Se ve lo state chiedendo, io oltre alla felpa con cappuccio e a un giubbottone di jeans nero, portavo un paio di leggings neri e degli anfibi.
«Prego, si accomodi. Sapevo che non avrebbe avuto problemi a trovare il posto».
«Nessun problema» confermai.
Winterbourne mosse il mouse e si sentì il click di un documento che si apriva sul suo computer. Non so perché, ma vederlo interagire con un Mac di ultima generazione mi sembrò subito strano. Forse avevo anche un sesto senso per l’età delle persone e non me n’ero mai accorta.
Perché Winterbourne, lì, sembrava vecchio.
Senza nessuna giustificazione razionale, lo pensai immediatamente. Aveva l’aspetto di un trentacinquenne, lo ribadisco. Un bel trentacinquenne, cosa che sarebbe bastata da sola a destabilizzarmi perché, fino a quel momento, tutti gli oldies che avevo incontrato erano sciatti e anonimi come i personaggi di un libro di spie di John Le Carré. Questo no. Il viso, rasato a pelle, ricordava quello di un attore degli anni ’40. Cesellato, ma virile. I capelli scuri avevano un taglio classico, sfumato. Gli occhi, grigi e incassati, erano sormontati da due splendide sopracciglia ad ala di gabbiano.
E, sebbene fosse seduto dietro una scrivania, sembrava snello, in forma.
E vecchio, chissà perché.
«Immagino che alla scuola di formazione non le avranno spiegato molto, ma si sarà fatta un’idea del perché è stata assegnata al nostro ufficio».
«Sì, signore».
Per un attimo restammo in silenzio e fu un filo imbarazzante. Si aspettava che elaborassi?
«Sì, mi aspetto che elabori» confermò Winterbourne. Che, con quello, mi confermò anche di essere un telepate.

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Classificazione: 4 su 5.

Questa ginnastica chiamata amore

Nella sua prima vita Carmen Casanova era una grafica editoriale. Poi una brutta esperienza ha cambiato tutto e ora è socia di uno studio legale specializzato nella difesa delle donne. Finché non viene avvicinata da una cliente misteriosa, vittima di violenze domestiche. Sembrerebbe una storia tristemente comune, se il marito non facesse parte di un clan mafioso.
Il procuratore aggiunto Luigi Lo Presti vive sotto scorta da quando ha mandato in prigione il primogenito di quello stesso clan e hanno cercato di ucciderlo.
È a lui che Carmen si rivolge, perché sa che la sua cliente avrà bisogno della protezione della Direzione Distrettuale Antimafia. Inizia così una collaborazione che li porterà sempre più vicini. Ad accompagnarli, quasi come una colonna sonora dello spirito, le canzoni di Battiato che arrivano ad alto volume dal bar dietro il palazzo di giustizia. Ma è giusto abbandonarsi all’amore (come nel Giappone delle geishe), se sei nel mirino di un clan mafioso? Lo Presti sembra pensare di no, ma le circostanze potrebbero smentirlo.

I corridoi della procura erano deserti come previsto. Il sole era appena tramontato, le aule del tribunale erano chiuse, non c’erano udienze in corso o, se c’erano, erano a porte chiuse. Da qualche ufficio filtrava una luce, da dietro qualche porta proveniva una voce, ma nel complesso non si vedeva anima viva.
Carmen fu fermata da due poliziotti in borghese subito fuori dalla DDA. Era già stata controllata all’ingresso, ma ora la controllarono di nuovo, con più attenzione.
«L’ufficio di Lo Presti è il terzo» le disse uno dei due, quando ebbero finito.
Carmen andò da quella parte in un silenzio irreale. Anche se non era vero silenzio, in fondo erano al centro di una grande città. Il silenzio era solo un’impressione. I suoi passi, nelle Oxford da uomo con la suola rigida, risuonavano sul pavimento di marmo. Su un lato del corridoio, una fila di finestre chiuse affacciava sul retro del palazzo di giustizia. Si sentiva la musica distante di un bar.

… I desideri mitici di prostitute libiche, il senso del possesso che fu pre-alessandrino…

Meraviglioso. Quella canzone sì che le risvegliava buoni ricordi. Ogni volta in cui la sentiva le veniva la pelle d’oca, non poteva evitarlo.
Non aveva mai fatto caso al bar da cui proveniva, forse perché non le capitava spesso di passare dietro al tribunale.
Sul lato interno del corridoio, le porte chiuse di una serie di uffici, anonime e marroni, ogni porta con la sua etichetta.
Carmen bussò alla terza.

… Ed è bellissimo perdersi in quest’incantesimo…

«Avanti!»
Quando Carmen entrò, Lo Presti era quasi arrivato alla porta. «Dottoressa Casanova». Le strinse la mano in modo sbrigativo e le indicò la scrivania.
Era il classico ufficio di un avvocato, pieno di faldoni e raccoglitori, le pareti coperte di librerie economiche, in parte chiuse, e ogni superficie libera invasa di carte.
Era anche un tipico ufficio pubblico, con il riscaldamento troppo alto e i mobili spaiati. Lo Presti era in maniche di camicia e gilet slacciato, Carmen si sfilò la giacca e la posò su una delle due sedie, per poi accomodarsi sull’altra.
«Ora mi dica chi è il marito della sua cliente. Salvo o Michele?»
«Salvatore Iacono» confermò Carmen.
«Già, Michele non sembra il tipo».
Lo Presti si sedette dietro la scrivania e intrecciò le dita davanti a sé. Era più o meno come in TV, solo un po’ più vero. La camicia stropicciata, il mento con un velo di barba. Dimostrava qualcosa in più dei suoi quarantacinque anni e sembrava stanco. A parte questo, non deludeva le attese. Longilineo, sul metro e ottantacinque, capelli castani tirati indietro, un picco della vedova che sconfinava nella stempiatura, lineamenti regolari, naso dritto, labbra sottili, occhi grigi, incassati. Gli occhi, per la precisione, erano puntati su di lei.

Carmen si dimenò sulla sedia, a disagio.

... Le tue strane inibizioni che scatenano il piacere…

Ci mancava solo quella cazzo di canzone. Continuava a sentirla, attutita dalla porta.
«Sono stata contattata da Francesca Iacono. In modo piuttosto insolito, per strada. Si è rifiutata di salire nel mio studio».
«La sorvegliano?»
«Così ha detto».
«Non le è sembrata attendibile?»
«Era francamente terrorizzata. E l’occhio nero era verissimo».

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Classificazione: 1 su 5.

Unfit Vol. 3: Vera

Amori di tre ragazze impresentabili

«Non mi pare una gran buona idea» considerò Haddock.
«Sono una Vassemer, non abbiamo buone idee».

La Stagione 1889 sta per finire e due delle tre sorelle Vassemer si sono sistemate. E, come tutte le malelingue della capitale hanno notato, si sono sistemate molto bene, sposandosi ben al di sopra del loro rango.
Resta solo Vera, la sorella di mezzo, che continua a ripetere a tutti di voler diventare una scrittrice di successo e di non essere interessata al matrimonio. Si è mai sentito qualcosa di più scandaloso? Chi mai potrebbe volere una ragazza del genere?
E, a proposito di scandali, le Vassemer non sono l’unica fonte di pettegolezzi della capitale. La famiglia dell’amata Regina Vittoria è sempre prodiga di comportamenti discutibili e anche il resto dell’aristocrazia non scherza. Peggio ancora, una piaga particolarmente odiosa rischia di venire alla luce. No, non si tratta delle solite quisquilie: adulterio, ricatto, figli illegittimi o evasione fiscale. No, non è neppure l’annoso problema dei nouveaux riches che pretendono sempre più posti al sole. E chiaramente non ha nulla a che fare con l’assurda richiesta delle suffragiste che anche le donne possano votare.
Questo è peggio. Si prepara lo scandalo più gigantesco dell’epoca.
O forse no.
In fondo, se c’è una cosa che la nobiltà del Regno sa fare bene è nascondere la polvere sotto il tappeto.

Unfit è una trilogia sulle disavventure di alcuni rispettabilissimi gentiluomini, che alla vita non chiederebbero altro che pace, tranquillità e le sacrosante gioie del patriarcato, vessati dalla mancanza di tatto di tre ragazze con il cervello pieno di sciocchezze, ambientata in un tempo migliore in cui gli uomini erano uomini e le donne erano piante da interno.

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Classificazione: 3.5 su 5.

Unfit Vol. 2: Fortune

Amori di tre ragazze impresentabili

«Quindi è così. Si permette di citare Baudelaire» disse Fortune.
«Mi permetto».

La Stagione 1889 è iniziata e che cosa possono mai fare tre sorelle impresentabili nel grande melting pot londinese, attraversato da moti suffragisti e lotte di classe, affollato di slum dove la povertà è inaccettabile e percorso da avanguardie culturali, crocevia per uomini e donne di ogni cultura e religione, in cui nobili e plebei si trovano a condividere la stessa aria inquinata dal fumo di mille caminetti?
Be’, ma chiaramente vestirsi come meringhe e andarsi a inginocchiare davanti alla Regina!
La sorella maggiore, Rachel, per la verità si è già accasata, nientemeno che con un marchese, ma le due minori, Vera e Fortune, sono ancora a piede libero.
Fortune ad accasarsi non è poi molto interessata, anche se con la famiglia del suo tutore legale le frizioni sono continue. Quindi se la fila il più spesso possibile per coltivare amicizie diverse con le donne più rivoluzionarie in città. Un’occupazione non priva di rischi, dato che le manifestazioni di protesta spesso finiscono con l’arresto di tutti i partecipanti.
Sua cugina Laura non capisce proprio che cos’abbia in testa per mescolarsi con certa gente, quando tutti gli scapoli di Londra le girano attorno. Il problema è che nessuno tra gli scialbi figli dell’aristocrazia del regno costituisce una buona accoppiata intellettuale per Fortune… nessuno tranne uno: il sulfureo, scandaloso, donnaiolo impenitente, giocatore d’azzardo, scapestrato Lord Grey, terrore di ogni madre con una figlia in età da marito.
Ecco, con lui Fortune non si trova male. Peccato che anche solo farsi vedere in sua compagnia potrebbe distruggere la reputazione di tutte le ragazze della famiglia. Che cosa potrebbe mai andare storto?

Unfit è una trilogia sulle disavventure di alcuni rispettabilissimi gentiluomini, che alla vita non chiederebbero altro che pace, tranquillità e le sacrosante gioie del patriarcato, vessati dalla mancanza di tatto di tre ragazze con il cervello pieno di sciocchezze, ambientata in un tempo migliore in cui gli uomini erano uomini e le donne erano piante da interno.

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Classificazione: 3 su 5.

Vita privata e abitudini di accoppiamento del vampiro newyorkese

The New Little Black Chronicles

Katel lavora in un’azienda di telecomunicazioni di Manhattan, nel ramo risorse artistiche. La sua vita scorre tra un impegno e l’altro, quando un incidente le apre un posto che non avrebbe mai pensato di ricoprire: assistente di Florian Viscardi, grande capo in persona.
Viscardi si rivela da subito un individuo particolare. Riservato in modo quasi patologico, gravemente fotofobico, vive al chiuso o dopo il caler del buio. Ma è anche una persona acuta, curiosa e meno altera di quanto possa sembrare. E ha gli occhi più incredibili che Katel abbia mai visto. Inevitabilmente, inizia a subire il suo fascino, senza speranza di essere ricambiata. Per quell’uomo bellissimo e potente lei è solo una valida collaboratrice. Non oltrepassa mai i limiti del rapporto professionale.
Ma, poi, lui è davvero quello che sembra? Katel si rende sempre più conto che la vita che vive è perlopiù una menzogna… chi è davvero Florian Viscardi? La risposta è così incredibile che non può essere vera. Oppure sì? Davvero il suo affascinante capo è un mostro delle leggende?

«Scusa, di chi è questa macchina?».
«Mia. Veicolo personale. Cerca di trattarla bene».
Lui ridacchiò. Era tutto stravaccato sul sedile del passeggero e, anche se era truccato, assomigliava ancora al suo vero sé. «Una Porsche Carrera? Sul serio, Katel? Ti facevo più originale».
Gli lanciai un’occhiataccia.
«Non parlare male della mia bambina».
Lui rise ancora. «No, no, ci mancherebbe. E cercherò di trattarla con ogni gentilezza… sperando che questa tizia “serissima” non mi salti addosso sulla via di casa».
«Oh. Oh, che razza di animale, per forza Andrea ti ha scaricato. Non osare fare giochetti strani nella mia macchina».
Lui sospirò. «Ma no, figurati. Con Heather Quella-lì, poi. Sarà vanilla dalla testa ai piedi. Tu sei vanilla, Katel?».
Era la primissima domanda di natura personale che mi facesse. Fino a quel momento la sua discrezione era stata completa, non mi aveva mai chiesto neppure se preferissi il caffè nero o macchiato. E ora quella strana domanda.
«Io non sono niente. Non ho relazioni, non faccio sesso occasionale, non guardo nemmeno film erotici».
«Sei messa così male, eh?».
Ero messa così male. A peggiorare la situazione, da qualche tempo coltivavo il sogno impossibile di farmi lui, una cosa che non sarebbe mai successa, fantascienza pura.
«Ma ho una bella macchina» mi difesi.

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Classificazione: 4 su 5.

La pelle del mostro

In una città lagunare ormai in rovina, Raina ha rinunciato a tutto: al proprio lignaggio, a ogni affetto e alla speranza. La città è a pezzi, dilaniata da una lotta intestina tra fazioni e accerchiata da un nemico soverchiante. La povertà dilaga, i canali sono invasi dai serpenti marini, non resta quasi nulla dell’antica tecnologia e dell’antico splendore. Raina è alla deriva, finché non le capita di salvare una ragazzina coraggiosa e sventata: Jayde. Jayde è la figlia di Uno dei signori della città, il famigerato e crudele Argent Sephiran, ma non è come lui. È affamata d’amore e vuole dimostrare al mondo di valere qualcosa. Così tra la ragazzina senza una madre e la giovane donna senza una famiglia si crea una strana, profonda, amicizia. Argent è sospettoso nei confronti di Raina, ma ama sua figlia più di qualsiasi cosa al mondo e per lei è disposto a proteggere anche la nuova arrivata. Che, tra l’altro, è un’incredibile cacciatrice di serpenti marini. Ma in una città come la loro nessun affetto è semplice, e ogni speranza ha il suo prezzo.

Presi il mio equipaggiamento e iniziai a trasferirlo sul mio barchino. Del serpente si sarebbero occupati gli uomini di Sephiran, grazie al cielo. Scuoiarne uno non era molto simpatico.
«Non intendi reclamare questa pelle, Raina Tempest?» chiese una voce divertita, dalla banchina.
Alzai lo sguardo.
Argent Sephiran stava seguendo le operazioni attorno alla nostra preda, le braccia incrociate sul petto e un mezzo sorriso sul volto.
Mi inchinai.
Sephiran mi chiamò con un dito.
Merda, pensai, ora che cosa succede?
Saltai sulla banchina, rassegnata a perdere il mio nuovo posto di lavoro.
Mi inchinai di nuovo. «Signore?».
Lui indicò il serpente con un cenno del capo. «Sul serio. Non reclami questa pelle?».
«È di Jayde».
«Sì? È stata lei a finirlo?». Un altro gesto nei confronti del serpente. «È stata lei a colpirlo all’occhio? A portare quel colpo da maestro?».
Sospirai. «Sta imparando».
«A me pare che stia rischiando la buccia per l’unico motivo di irritare la sua matrigna. Ma ammetto che irritarla può essere divertente».
«Vuole conquistarsi il suo posto».
«E anche oggi è finita in acqua» puntualizzò lui.
«Sa nuotare» dissi, prima di riuscire a trattenermi. Poi sospirai di nuovo. «Ma sono sicura che lei ha presente meglio di me che cosa sa o non sa fare Jayde».
Sephiran mi rivolse una lunga occhiata, che mi guardai bene dal ricambiare.
«La cosa interessante sembra un’altra. Che cosa sai o non sai fare tu. Ammetto che, se mia figlia non avesse scavato, mi sarei bevuto la storiella della Lontra. Fammi un favore…»
Ci siamo… qua è dove mi gioco il lavoro e forse anche la buccia.
«…Fatti dare una tuta con le mie insegne. Non voglio che mentre voi ragazzine siete a giocare nei canali vi metta gli occhi addosso qualche malintenzionato».
Inarcai un sopracciglio, ma non commentai. Quale malintenzionato se la sarebbe presa con due “ragazzine” con degli arpioni in mano? Ma forse il messaggio era un altro ed ero io a non capire.
«Sissignore» dissi.
Lui annuì e mi lasciò sulla banchina.

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Classificazione: 3 su 5.

Le terre ardenti

Una Grande Onda ha sommerso l’umanità, uccidendo nove decimi della popolazione mondiale e lasciandosi dietro poche comunità isolate che fanno quel che possono per sopravvivere in un ambiente ostile. Lara sta cercando rottami riutilizzabili nel grande “cimitero delle macchine” a pochi chilometri dal suo insediamento, quando scorge un pericolo imminente. Sulla Tavola Ardente infuria una tempesta di sabbia, ma lei deve tornare indietro comunque, per avvisare la sua gente. È Skylar che la salva dalla morte, avvistandola dalla cima dell’altoforno in cui vive. Nel loro insediamento lo chiamano l’Eremita perché esce raramente e passa il tempo a progettare nuovi sistemi per coltivare la loro terra arida e proteggere la loro baraccopoli dai razziatori. Come molti dei sopravvissuti all’Onda, anche lui è ferito nel corpo e nell’anima, ma non si è ancora arreso. Forse è questo ad attirare Lara sempre di più, nonostante abbia già un compagno. È l’inizio di un’avventura pericolosa che porterà Lara e Skylar a superare i confini del loro mondo, verso una difficile rinascita…

Sentirono i passi del razziatore che si allontanavano.
Nel loro angusto nascondiglio, Skylar le accarezzò la testa. Le strofinò la guancia su una guancia e Lara sentì che era bagnata. Solo dopo un attimo si rese conto che le lacrime erano le proprie.
«Shh… shh…» sussurrò lui. «Aspettiamo che tornino indietro, prima di uscire».
Lara annuì. La sua presa sul torace di lui si allentò un po’. I suoi muscoli si rilassarono leggermente. Erano stretti l’uno all’altra, le gambe intrecciate, le guance a contatto. Lara dubitava di essere mai stata così appiccicata a un altro essere umano. Neanche quando faceva l’amore aderiva in quel modo al corpo dell’altro. Be’, di Arvid, per lo più. Non era una che accendesse un granché le fantasie maschili, quindi negli ultimi tempi Arvid era stato l’unico volontario.
«Non ti preoccupare. Al ritorno saranno ancora meno attenti» mormorò Skylar, nel suo orecchio.
«Sì» sospirò lei. Nient’altro.
Fino a pochi minuti prima la paura la paralizzava, ma ora iniziava a percepire di nuovo il mondo. Il corpo di lui stretto al proprio, il suo odore, il suo respiro… forse avrebbe dovuto allontanarsi un po’, ma non voleva farlo. La sua pancia dura era così gradevole, sulla propria. La sensazione dei piccoli seni che premevano sul suo petto…
Ma che cacchio vai a pensare? Fino a tre secondi fa stavi per fartela addosso e ora vorresti strusciarti tutta?
Skylar continuava ad accarezzarle un fianco, tranquillizzante, e Lara chiuse gli occhi e si abbandonò alla sensazione. Le sue dita sopra la stoffa della casacca… poi sotto, sulla pelle morbida della vita… carezze leggere, impalpabili…
Dio, si rendeva conto che la stava attizzando a morte?
Le sue dita continuavano a toccarla… accarezzarla… lisciarla… senza mai allontanarsi dal suo fianco, senza salire verso i seni o scendere… Dio, come avrebbe voluto che scendessero…

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Desiderio e attesa

Una bambina è scomparsa, su nel nord dell’Inghilterra. A indagare sul caso viene mandato l’ispettore James Artington, della National Crime Agency, che aiuterà il sergente Fillmore della polizia locale. Quando la ragazzina ricompare in stato di shock le autorità si rivolgono alla dottoressa Alexandra Von Röeten-Loewe, ultima rampolla di una famiglia nobile dalle immense ricchezze che cerca di espiare i propri privilegi aiutando i più bisognosi. E lavorando fianco a fianco su quel caso cupo, in un inverno senza pietà, Alexandra resta affascinata dall’ispettore Artington e dal dolore che nasconde. Neanche lui è indifferente alla dottoressa, ma è combattuto. E Alexandra dovrà armarsi di molta pazienza, dato che il desiderio non è sufficiente perché Artington venga a patti con il suo passato.

“«Chiuda gli occhi, forza. Si rilassi».
Artington obbedì. Con gli occhi chiusi si portò il bicchiere alle labbra e annusò la complessità del whisky che conteneva. Sentì Alexandra posare lo sgabello davanti al tavolino e sedersi.
«È davvero… buono…» mormorò.
Lei gli sfilò un calzino. Artington non se l’aspettava. Non se l’aspettava minimamente, ma riuscì a non riaprire gli occhi. In qualche modo sapeva che se avesse riaperto gli occhi Alexandra ci avrebbe letto dentro… tutto. Il desiderio, il senso di colpa, una speranza inappropriata e un po’ patetica.
«Be’, è invecchiato trent’anni e tutto, sa. Non c’è motivo di bere robaccia» commentò lei, con una risata leggera. Iniziò a massaggiargli un piede.
Così, a mani nude, come se nulla fosse. Si posò il suo piede sulle cosce e gli massaggiò bene il tallone e la pianta.
Artington lo trovò profondamente piacevole. Profondamente erotico, in realtà.
«Che meraviglia» sospirò.
Bevve un altro sorso. Il calore del whisky gli incendiò lo stomaco, mentre le mani di Alexandra lo massaggiavano delicate. L’arcata, di nuovo il tallone… gli fece piegare le dita e poi le spinse verso il basso, sciogliendo ogni tensione.
Per un attimo pensò che lo avrebbe leccato. Che gli avrebbe succhiato le dita una per una, solleticandolo con la lingua tra un dito e l’altro.
Non era il suo genere di cosa, ma il pensiero gli procurò un’erezione.
«Meglio, vero?».
«Mh-mh».”

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Il risveglio dei sensi

Sono passati cinque anni dalla rivoluzione che ha cambiato la faccia del paese. Flor Garcia, figlia di un combattente morto, viene mandata come aiuto domestico nella casa di uno dei leader della rivolta, Santos Ruiz, che da anni vive isolato nella sua “finca” di campagna. Nessuno sa perché abbia rifiutato ogni incarico pubblico e si sia ritirato, ancora giovane, a vita privata. All’inizio Flor è intimidita da quell’uomo silenzioso, quasi seccato di averla attorno, ma presto tra loro si sviluppa un legame speciale, che diventa più profondo di giorno in giorno. Ma tutti i nodi vengono al pettine e non tutti sono felici degli esiti della rivoluzione, a partire da Santos…

Mi voltai su un fianco per guardarlo meglio. «Be’, e hai pagato il prezzo dei tuoi errori, no? O sono balle propagandistiche anche quelle?».
Quello che dicevano le cronache ufficiali era che durante la presa della capitale Santos Ruiz aveva guidato i suoi uomini in un cul-de-sac in cui erano rimasti intrappolati per più di tre ore sotto al fuoco dell’esercito regolare. Erano morti a decine. Alla fine erano riusciti a sfruttare le tenebre per aprirsi la strada con un’azione a sorpresa. C’erano state altre morti e Ruiz era rimasto gravemente ferito, tanto che per un giorno si era temuto che morisse anche lui.
«No, no…» rispose.Si voltò a sua volta su un fianco e si sollevò la maglietta. Per qualche istante restai come ipnotizzata da quel torace incredibilmente appetitoso. Gli addominali definiti, la pancia piatta, i fianchi asciutti… e una lunga cicatrice, che partiva da sotto al suo capezzolo sinistro e attraversava il busto, finendo per scomparire in basso, oltre la cintura dei pantaloni.
«Merda» commentai, senza riuscire a distogliere gli occhi. Santos fece per ricoprirsi, ma io stavo già percorrendo la lunghezza della cicatrice con la punta dell’indice. Era una linea sottile, sporgente, di un rosa più brillante del resto della sua pelle bruna.Senza avere un’idea di che cosa stessi facendo, allungai la testa e deposi un bacio delicato dove la cicatrice iniziava. Poi un altro, poco più in basso. Poi un altro.
«Flor? Che cosa stai…» mormorò Santos, ma era troppo tardi anche per lui. Mi resi conto che qualcosa si era mosso dentro ai suoi pantaloni e continuai a baciarlo. Lo rivoltai sulla schiena e lui restò lì, con gli occhi socchiusi, passivo, ma certamente non contrario.

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