Roma, 1874. Quando gli Arden arrivano nella nuova capitale, l’Italia è unita da pochi anni, e non del tutto. Prospero, Cressida e Titania sono inglesi, figli del visconte di Paget. Il maggiore ha intrapreso un Grand Tour d’Europa per distrarsi da una situazione familiare infelice, le sue sorelle minori per spirito d’avventura. O quasi. Cressida, in patria, ha dovuto fronteggiare uno scandalo quando il suo fidanzato l’ha scaricata poco prima delle nozze, e senza spiegazioni. Gli Arden hanno già passato diversi mesi in Francia e nel nord Italia, ora sono pronti a godersi un’estate romana tra antiche rovine e opere d’arte. Saranno ospiti – a pagamento – dei Duchi di Nemi. Gualtiero e Alina, i figli del duca, appartengono a un’antica famiglia in difficoltà finanziarie. Gualtiero è un unitario convinto, ha persino combattuto in Triveneto, ed è da anni in rotta con il padre, fedele al papato. Come se non bastasse, nella grande e magnifica tenuta sul lago di Nemi vive anche Ettore Amari, amministratore della proprietà ed ex commilitone di Gualtiero. È l’incontro di due mondi. Tra antipatie, amori e duelli, per gli Arden l’ultima parte del Grand Tour sarà davvero indimenticabile.
«Non andranno fino in fondo, vero?» chiese Cressida, in tono angosciato. «Oh, spero proprio di sì!» replicò Alina. «Non sarebbe stato meglio scegliere il primo pomeriggio?» considerò Titania. Alina alzò gli occhi al cielo. «Troppo caldo!» «Ma se risolvessero con una stretta di mano…» «Ne dubito» considerò Alina. «E se uno dei due si ritirasse, perderebbe la faccia». «Dovrebbe essere vietato!» «Pare che vogliano vietarlo, sì». «È una barbarie!» Alina le rivolse un sorriso allegro. «Non vi preoccupate, il vostro campione vincerà di sicuro. Lord Coso è un lombrico». Cressida riprese a torcersi le mani, nei guantini di pizzo. Nella sua mente era ben chiara una sgradevole verità: anche un lombrico può essere pericoloso, con una sciabola in mano.
Omar Ricciardi è appena stato nominato Presidente del Consiglio. Come sia successo non è del tutto chiaro neanche a lui. Il precedente governo è caduto, okay. In Italia succede spesso. Tutte le persone a cui il Presidente della Repubblica ha conferito un incarico esplorativo non sono riuscite nell’impresa di formare un nuovo esecutivo. Omar sì, anche perché ormai erano tutti esausti. Ora si trova con un mestiere che non vuole fare, con problemi da risolvere molto più grandi di lui e con un orizzonte temporale estremamente limitato, perché sa già che il suo governo cadrà al primo muover di foglia. Unico aspetto positivo, il nuovo assistente che il suo segretario gli ha procurato si chiama Andrea, sì, ma è una donna. Una giovane donna con le idee molto chiare e nessuna illusione sulla politica, forse disposta a rendere la sua vita migliore sotto più di un punto di vista. Mentre tra loro aumenta l’attrazione, però, per Omar aumentano anche i problemi. In modo esponenziale.
La politica italiana come non l’avete mai vista. E mai la vedrete nella realtà.
Rettori la precedette verso lo studio del presidente, la famosa Galleria Deti, bussò e aprì in un unico gesto. «Omar, c’è qua la prima candidata per il ruolo di capo della segreteria particolare». Ricciardi era seduto dietro una grande scrivania. Alle sue spalle, una finestra e le bandiere, tutto attorno, dipinti a olio di certo antichi e preziosi, dorature come se piovessero, un soffitto a cassettoni affrescato, tende e poltrone di broccato in tinta e una carta da parati dorata che nessuno sano di mente avrebbe definito sobria. Ricciardi, là in mezzo, sembrava fuori luogo. Andrea l’aveva visto in TV un paio di volte e aveva fatto un’approfondita ricerca sul suo conto prima di mandare il curriculum. Di cinque anni più anziano di lei, bel viso virile, spalle larghe e fianchi stretti, indossava un maglione bianco piuttosto sformato che rovinava tutto. «Pensavo che fosse un maschio» ammise candidamente, lanciandole un’occhiata infelice. «No, Omar. Andrea è un nome anche femminile» puntualizzò il segretario. «Va be’. Si accomodi, prego». Andrea si accomodò su una sedia rivestita di broccato rosellino. «Se preferisce un assistente uomo lo capirò» disse, con un altro sospiro. Era inutile rendergli le cose difficili. Per quanto il suo governo non avesse molte chance di arrivare a sei mesi di vita, era per sempre il Presidente del Consiglio. «Di sicuro lo preferisce Carlo. Sospetto che abbia scazzato per via del nome. Le succede spesso?» «Tutto il tempo. Be’, tranne all’estero». «Già. Mmm… per lei viaggiare è okay?» Non era la prima domanda che Andrea si aspettasse. «Sì» rispose, un po’ stupita. «Orari del cazzo, carico di lavoro disumano?» Era chiaro che Ricciardi doveva ancora mettere a punto il suo lessico presidenziale. «Me lo aspetto, sì». «Pompini durante la pausa pranzo?» Andrea non cambiò espressione. «Ma solo se è ragionevolmente pulito». Ricciardi sbatté le palpebre. Rise. «Era una specie di trabocchetto». «E la mia era una risposta onesta. La politica è quel che è». «Ah». Chiaramente era rimasto a corto di domande. «Ci tengo a ribadire che era un trabocchetto. Le persone imperturbabili mi innervosiscono, finisco per sparare cazzate». «Tendo a essere imperturbabile, mi dispiace». «Mi sa che non siamo fatti l’uno per l’altra».
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Nella sua prima vita Carmen Casanova era una grafica editoriale. Poi una brutta esperienza ha cambiato tutto e ora è socia di uno studio legale specializzato nella difesa delle donne. Finché non viene avvicinata da una cliente misteriosa, vittima di violenze domestiche. Sembrerebbe una storia tristemente comune, se il marito non facesse parte di un clan mafioso. Il procuratore aggiunto Luigi Lo Presti vive sotto scorta da quando ha mandato in prigione il primogenito di quello stesso clan e hanno cercato di ucciderlo. È a lui che Carmen si rivolge, perché sa che la sua cliente avrà bisogno della protezione della Direzione Distrettuale Antimafia. Inizia così una collaborazione che li porterà sempre più vicini. Ad accompagnarli, quasi come una colonna sonora dello spirito, le canzoni di Battiato che arrivano ad alto volume dal bar dietro il palazzo di giustizia. Ma è giusto abbandonarsi all’amore (come nel Giappone delle geishe), se sei nel mirino di un clan mafioso? Lo Presti sembra pensare di no, ma le circostanze potrebbero smentirlo.
I corridoi della procura erano deserti come previsto. Il sole era appena tramontato, le aule del tribunale erano chiuse, non c’erano udienze in corso o, se c’erano, erano a porte chiuse. Da qualche ufficio filtrava una luce, da dietro qualche porta proveniva una voce, ma nel complesso non si vedeva anima viva. Carmen fu fermata da due poliziotti in borghese subito fuori dalla DDA. Era già stata controllata all’ingresso, ma ora la controllarono di nuovo, con più attenzione. «L’ufficio di Lo Presti è il terzo» le disse uno dei due, quando ebbero finito. Carmen andò da quella parte in un silenzio irreale. Anche se non era vero silenzio, in fondo erano al centro di una grande città. Il silenzio era solo un’impressione. I suoi passi, nelle Oxford da uomo con la suola rigida, risuonavano sul pavimento di marmo. Su un lato del corridoio, una fila di finestre chiuse affacciava sul retro del palazzo di giustizia. Si sentiva la musica distante di un bar.
… I desideri mitici di prostitute libiche, il senso del possesso che fu pre-alessandrino…
Meraviglioso. Quella canzone sì che le risvegliava buoni ricordi. Ogni volta in cui la sentiva le veniva la pelle d’oca, non poteva evitarlo. Non aveva mai fatto caso al bar da cui proveniva, forse perché non le capitava spesso di passare dietro al tribunale. Sul lato interno del corridoio, le porte chiuse di una serie di uffici, anonime e marroni, ogni porta con la sua etichetta. Carmen bussò alla terza.
… Ed è bellissimo perdersi in quest’incantesimo…
«Avanti!» Quando Carmen entrò, Lo Presti era quasi arrivato alla porta. «Dottoressa Casanova». Le strinse la mano in modo sbrigativo e le indicò la scrivania. Era il classico ufficio di un avvocato, pieno di faldoni e raccoglitori, le pareti coperte di librerie economiche, in parte chiuse, e ogni superficie libera invasa di carte. Era anche un tipico ufficio pubblico, con il riscaldamento troppo alto e i mobili spaiati. Lo Presti era in maniche di camicia e gilet slacciato, Carmen si sfilò la giacca e la posò su una delle due sedie, per poi accomodarsi sull’altra. «Ora mi dica chi è il marito della sua cliente. Salvo o Michele?» «Salvatore Iacono» confermò Carmen. «Già, Michele non sembra il tipo». Lo Presti si sedette dietro la scrivania e intrecciò le dita davanti a sé. Era più o meno come in TV, solo un po’ più vero. La camicia stropicciata, il mento con un velo di barba. Dimostrava qualcosa in più dei suoi quarantacinque anni e sembrava stanco. A parte questo, non deludeva le attese. Longilineo, sul metro e ottantacinque, capelli castani tirati indietro, un picco della vedova che sconfinava nella stempiatura, lineamenti regolari, naso dritto, labbra sottili, occhi grigi, incassati. Gli occhi, per la precisione, erano puntati su di lei. Carmen si dimenò sulla sedia, a disagio.
... Le tue strane inibizioni che scatenano il piacere…
Ci mancava solo quella cazzo di canzone. Continuava a sentirla, attutita dalla porta. «Sono stata contattata da Francesca Iacono. In modo piuttosto insolito, per strada. Si è rifiutata di salire nel mio studio». «La sorvegliano?» «Così ha detto». «Non le è sembrata attendibile?» «Era francamente terrorizzata. E l’occhio nero era verissimo».
Lui, una celebrity le cui sregolatezze tengono banco sui giornali scandalistici. Lei, una chirurga ortopedica di origini somale. Un paese fantasma, una storia improbabile e intensa, un atto di generosità che non passa impunito.
Quando riceve una richiesta di intervento in un paese fantasma dell’Alto Piemonte, l’ultima cosa che Jamilah si aspetterebbe di trovare è una celebrity con una gamba incastrata tra le assi di un pavimento cadente. E invece l’uomo in difficoltà è proprio Marco Santacroce, il figlio ormai trentottenne della star del rock Vittorio Santacroce. Il celebre cantante è morto dieci anni prima, ma le sregolatezze del figlio tengono ancora banco sui giornali scandalistici. Jamilah è una chirurga ortopedica, lontanissima dal mondo dello spettacolo e da qualsiasi frivolezza. Italiana di origini somale, ha lavorato nei paesi più poveri del mondo e solo da poco è tornata a vivere nel suo paesello di montagna, tra gli amici del liceo e tra la diffidenza di chi fatica a fidarsi di una dottoressa nera. Lei e Marco non hanno nulla in comune, almeno all’apparenza. Certo, lui è bello, ed è anche diverso da come lo dipingono i siti di gossip. È un po’ più vero e disperato dell’immagine che rimanda il web. Jamilah dovrà provare sulla sua pelle che cosa significhi finire alla gogna mediatica per capirlo davvero. E Marco dovrà cercare di allontanarsi dal passato per cominciare a vivere.
Le porte si aprivano con una tessera magnetica. Santacroce fece scattare la serratura della stanza numero 306 ed entrò. Tutte le luci si accesero al loro ingresso, deboli e gialle. «Non è il massimo della vita» commentò Jamilah, osservando le pareti beige e la moquette marrone. «Ma no, è okay. Senti, volevo chiederti una cosa». A quel punto si interruppe. Lì, in piedi in quella stanza troppo beige, con la porta ancora aperta, nella luce flebile e itterica delle applique di vetro satinato, riflesso dallo specchio sopra la scrivania. In un film quella pausa sarebbe sembrata carica di significati, ma nella realtà fu solo un po’ strana. «Cioè, pensavo» riprese a parlare Santacroce. «Avrai dei piani per la serata». Sembrava un trabocchetto. Non un trabocchetto volontario, magari, ma il genere di affermazione che ti spinge a dare risposte avventate di cui subito dopo ti pentirai. Risposte tipo: “Non ho nessun piano, ecco la mia vagina, facci quello che vuoi”. Jamilah si limitò a un cautissimo: «In che senso?» «Nel senso… stavi tornando a casa. Avrai cose da fare. In caso contrario…» Si interruppe di nuovo, gonfiò le guance ed espirò. «Sono un po’ scosso, per così dire. Ero un po’ scosso anche in partenza, per me non è un gran periodo. Se non hai niente di urgente da fare potresti soccorrermi anche emotivamente e cenare con me. Finché non ho smesso di tremare, diciamo». Lei sbatté le palpebre. «Stai tremando?» «Pensavo che si vedesse. Ora mi pento un po’ di averlo ammesso». Jamilah emise una risata leggera. «Per fortuna c’è la confidenzialità medico-paziente. Potremmo ordinare da qualche parte. Non mi sembri in grado di andare a mangiare fuori». «Già». «Comunque a casa mi aspettava una pizza surgelata». «Oh. Pensavo che voi medici aveste una vita sociale brillante». «Non so come ti sia fatto una simile idea». Santacroce ci pensò per qualche secondo.«Nip/Tuck, credo». Jamilah sospirò e scosse la testa. «Lo dico sempre anch’io che avrei dovuto scegliere chirurgia estetica».
Chiara lavora per una multinazionale energetica. Viene mandata in Libia a occuparsi degli impianti di estrazione in loco, tra i pericoli di una nazione sempre sull’orlo di una guerra civile e quelli della spietata competizione aziendale interna. È durante il suo periodo in Nord Africa che conosce Yidir, il berbero che gestisce la sicurezza degli italiani per conto dell’autorità petrolifera libica, e tra loro scatta qualcosa. Un’attrazione complicata, che si scontra con due modi diversi di vedere il mondo. Yidir è un uomo inquieto, in fondo legato a un’idea di femminile che per Chiara è inconcepibile, Chiara ha sempre messo la carriera davanti a qualsiasi affetto. Ma tra il calore del deserto e il freddo di Milano, tutto possono fare Chiara e Yidir, tranne provare indifferenza l’uno per l’altra. Tra loro cresce un sentimento che ha il potere di annullare ogni distanza, di far superare ogni difficoltà, ogni incomprensione… ma sarà sufficiente?
«Che cosa c’è?» chiese Yidir. Chiara scosse la testa ed emise una risatina incredula. «Mi stanno tornando in mente così tanti ricordi… ricordi a cui non pensavo da anni. È strano accorgersi di essersi lasciati alle spalle così tante cose». Lui piegò leggermente la testa verso di lei. «Sono brutti ricordi?». «No, sono solo… ricordi che non ricordavo da anni e anni. Sembro matta, giusto?». «Sembri emozionata». Era vero e quell’osservazione la confuse. Alzò lo sguardo su quello di lui e sentì qualcosa stringerle lo stomaco. Un sentimento stupido, un senso di mancanza preventivo. Non voglio perderlo, pensò. E poi: che razza di idiozie ti vengono in mente? Il cuore le batteva a un ritmo forsennato e Yidir non distoglieva lo sguardo. Prima di rendersene conto, Chiara si era alzata sulla punta dei piedi e l’aveva baciato. Percepì il sospiro di Yidir, più che sentirlo. Le cinse la vita e se la strinse contro, mentre il bacio diventava più affamato, più carnale. Chiara fece scivolare le mani sulle sue spalle, su quelle braccia ferme e dure, poi sopra il corpetto antiproiettile, giù fino ai fianchi, dove esitarono un attimo. Si perse nel bacio che si stavano scambiando, le lingue che si accarezzavano in modo sempre più intimo…
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Jean è una giramondo, non si ferma mai in un posto troppo a lungo. Durante un viaggio aereo incontra un uomo sexy con una benda su un occhio. Pensa che sia una piacevole distrazione, una persona interessante come ne ha conosciute molte, ma non sa che Gilles non è una persona come tutte le altre. Per niente. La attirerà in un mondo fatto di esseri infinitamente longevi, che vivono tra di noi senza essere come noi. Ma ora l’esistenza millenaria di Gilles è stata notata da un misterioso gruppo di uomini senza scrupoli e quel mondo è in pericolo…
Gilles le rivolse un sorriso pigro e vagamente indisponente mentre lei gli sfilava i pantaloni. «Quanta fretta, Jean. Da cosa scappi?» le chiese, quando lei gli salì sopra, affondando su di lui. La prese per le natiche e la rivoltò pancia all’aria, con un piccolo grugnito e senza uscire da lei. «Guarda… Posso essere veloce quanto te» ansimò nel suo orecchio, mentre lei iniziava a contrarsi attorno a lui. Lo sentì venire, veloce come aveva promesso (minacciato?) di essere. Respirarono in silenzio per qualche minuto.«Voglio solo che mi rispondi» disse Jean, appoggiando la testa sulla sua spalla. «Chi ti ha insegnato a… lo sai». Sentì il fremito di una risata silenziosa attraversargli il corpo. «Ho imparato qua e là, con il tempo. Era questo che volevi sapere?». Jean schioccò la lingua. «Più o meno. Quanti anni hai, tra l’altro?». Lui sorrise ancora, mille piccole rughe che si formavano accanto al suo occhio sinistro. «Tu che cosa dici?». Lei si mordicchiò un labbro. Non voleva sembrare offensiva, così disse «Trentacinque?» anche se lo stimava più vicino alla quarantina. «No, decisamente no. Fai circa tre-mila».
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