Impossibile

Omega Group 1

Regno Unito, giorni nostri. Da una ventina d’anni circa, in tutto il mondo, hanno iniziato a nascere bambini dai poteri particolari. Un’opinione pubblica sempre più ostile li definisce “quelli lì” o, sarcasticamente, gli “specials”. Amber è una di loro.
Sempre in UK, c’è una sezione dei servizi segreti conosciuta come Omega Group. O meglio, no, non è conosciuta, ovviamente è segreta. È composta solo da individui dotati di capacità extrasensoriali fuori scala, esper in grado di leggere nel pensiero, di prevedere il futuro, di spostare gli oggetti con la mente o di fare cose anche più strane. Molto più strane, nel caso di Amber.
Il suo esp principale è un esp erogeno che le ha dato una scomoda fama da vedova nera, ma che la rende anche perfetta per un certo tipo di operazioni. Per questo, dopo la scuola di formazione, Amber viene assegnata al Brixton Branch, una divisione dell’Omega Group sotto l’illuminato comando di Edward Malachi Winterbourne. Un capo gentile, collaborativo, attento a valorizzare le esperienze di ognuno… e un uomo impossibile. Totalmente impossibile.

Dunque, il direttore. O, come sarei presto arrivata a considerarlo, l’uomo più impossibile del mondo.
Di lui sapevo molto poco, giusto il nome. D’altronde l’Omega Group faceva pur sempre parte dell’MI5, non di una bocciofila. Un sacco di cose erano classificate. Edward Malachi Winterbourne era il direttore da diversi anni, non sapevo quanti, ed era uno degli oldies.
Eh già. I normali pensavano che “Quelli lì” fossero una novità dovuta all’inquinamento, al surriscaldamento climatico, alle onde magnetiche, a una mutazione genetica o agli alieni, ma gli specials erano sempre esistiti. Solo, erano pochi. Così pochi e così rari che fino a una ventina di anni prima erano riusciti a restare segreti.
Alla scuola di formazione ne avevo conosciuto qualcuno e, credetemi, di solito ti davano i brividi. Avevano vissuto un’altra epoca, avevano un altro modo di fare le cose. E, spesso, avevano delle abilità davvero spiccate, oltre che allenate da anni di esercizio.
Dietro la scrivania, un uomo sui trentacinque in un completo sartoriale color antracite, elegante e un po’ antiquato. Se ve lo state chiedendo, io oltre alla felpa con cappuccio e a un giubbottone di jeans nero, portavo un paio di leggings neri e degli anfibi.
«Prego, si accomodi. Sapevo che non avrebbe avuto problemi a trovare il posto».
«Nessun problema» confermai.
Winterbourne mosse il mouse e si sentì il click di un documento che si apriva sul suo computer. Non so perché, ma vederlo interagire con un Mac di ultima generazione mi sembrò subito strano. Forse avevo anche un sesto senso per l’età delle persone e non me n’ero mai accorta.
Perché Winterbourne, lì, sembrava vecchio.
Senza nessuna giustificazione razionale, lo pensai immediatamente. Aveva l’aspetto di un trentacinquenne, lo ribadisco. Un bel trentacinquenne, cosa che sarebbe bastata da sola a destabilizzarmi perché, fino a quel momento, tutti gli oldies che avevo incontrato erano sciatti e anonimi come i personaggi di un libro di spie di John Le Carré. Questo no. Il viso, rasato a pelle, ricordava quello di un attore degli anni ’40. Cesellato, ma virile. I capelli scuri avevano un taglio classico, sfumato. Gli occhi, grigi e incassati, erano sormontati da due splendide sopracciglia ad ala di gabbiano.
E, sebbene fosse seduto dietro una scrivania, sembrava snello, in forma.
E vecchio, chissà perché.
«Immagino che alla scuola di formazione non le avranno spiegato molto, ma si sarà fatta un’idea del perché è stata assegnata al nostro ufficio».
«Sì, signore».
Per un attimo restammo in silenzio e fu un filo imbarazzante. Si aspettava che elaborassi?
«Sì, mi aspetto che elabori» confermò Winterbourne. Che, con quello, mi confermò anche di essere un telepate.

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Classificazione: 4 su 5.

Tulip House

C’era una volta, in un paese lontano, una bellissima principessa che andò in sposa al signore di un regno vicino. I due non si erano mai incontrati e… diciamocelo, sembra la ricetta di un disastro annunciato.
Le cose, però, non sono mai così semplici. Contro ogni previsione Francine e Marcus sembrano subito andare d’accordo, fuori e tra le lenzuola, tutto procede per il meglio, ma…
Ma gli dei, sapete. Le divinità invidiose, da che mondo è mondo, non tollerano la felicità degli uomini. E non sono le sole.
Tulip House è una favola sui generis. Una fiaba sensuale e, come tutte le fiabe, un po’ crudele. Insomma, non tutto va bene e la già improbabile sintonia tra gli sposi viene presto messa alla prova.

Marcus era seduto dietro la scrivania, e stava annotando qualcosa su un foglio. Quando Francine entrò sollevò lo sguardo con aria seccata, poi, vedendo che era lei, le rivolse un vago sorriso e si alzò. Cotton entrò dietro di lei.
«Buongiorno Francine. Ti stavo aspettando».
«Ed eccomi qua» rispose lei, in tono leggero. Poi aggiunse: «Il signor Cotton sostiene che dovrei indossare solo vestiti lunghi».
«È compito del signor Cotton ricordare a tutti che cosa dovrebbero fare» disse Marcus, girando attorno alla scrivania e andandole incontro. «Trovo che questa mise ti doni molto, anche se magari potrebbe essere inappropriata fuori dal recinto della Tulip House».
Lei annuì. «La mia stessa opinione».
«Molto bene» disse Marcus, aprendo la porta. Mentre stava uscendo si rivolse al suo segretario. «Cotton? Per oggi non lavorerò più, naturalmente. Quindi sei libero».
«Sì, Vostra Grazia».
Marcus lasciò la stanza, seguito da Francine, senza ulteriori commiati.
«Mi chiama sempre Vostra Grazia quando non siamo soli». Poi imboccò una rampa di scale di marmo, diretto al piano superiore. Camminava a passo veloce, ma senza correre, con un eccesso di dignità e serietà tutto attorno che Francine trovava quasi divertente. Supponeva che gli venisse naturale.

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Una cospirazione di gentiluomini

A Victorian Story

Rupert è il terzo figlio di un visconte in rovina. La sua famiglia è così preoccupata di mantenere il proprio status da non riuscire a provvedere ai suoi bisogni essenziali. Così Rupert fugge, rubacchia tra i vicoli del porto, vive di espedienti. Finché, a undici anni, non si imbarca sul suo primo mercantile.
Venticinque anni dopo, una tragedia cambia le carte in tavola. Rupert ha ormai raggiunto una certa prosperità, ha una compagnia di navigazione, un socio che stima, una donna che ama. Poi, all’improvviso, la sua famiglia riappare e le circostanze sono tragiche. L’unico modo per scampare alla rovina sembra essere sposare una giovane ereditiera cresciuta in collegio.
Ma se il rimedio fosse peggiore del male?

Rupert andò verso gli appartamenti di Lily, bussò e aspettò di sentire un flebile “avanti”.
Oltre la porta, le stanze erano immerse nel buio.
«Lady Lily? Dovrebbe accendere una lampada» disse, con un sospiro. Non voleva rompersi un osso inciampando in qualche tappeto.
Passarono diversi secondi, poi dalla camera della sposa provenne un debole chiarore.
Rupert sospirò di nuovo. Andò da quella parte.
Lily era a letto – o così doveva supporre. Le tende del baldacchino erano chiuse.
Ne scostò una e rivolse un sorriso affabile a quella poveretta. «Buonasera. Spero che la sistemazione sia di suo gradimento».
Lily aveva le coperte tirate fino al naso. «S-sì, grazie. È tutto molto bello».
«Mh-mh. Adesso si rilassi e lasci fare a me».
Si liberò della vestaglia, poi si sfilò la casacca del pigiama.
Dal letto provenne un curioso suono, quasi un grido strozzato.
Un secondo più tardi Rupert doveva accettare la realtà: sua moglie era svenuta.

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Classificazione: 4 su 5.